«Spavaldo per non parere d’esser minchione»: il cinema degli esordi e i giovani all’inizio del Novecento
In un periodo di grandi trasformazioni, quello giolittiano, un mass media dalla potenza suggestiva senza eguali diventa fonte di nuovi modelli relazionali tra ragazze e ragazzi.
Nel 1913 Torino è la città italiana che ha il maggior numero di sale cinematografiche, ben 73, la cui collocazione per lo più nelle borgate periferiche dà l’idea del pubblico che sancirà il successo di questa nuova forma d’intrattenimento. Il cinema infatti, che conquisterà la borghesia solo quando inizierà a tentare di riprodurre i cliché del teatro borghese in sale di proiezione più eleganti, ai suoi inizi è uno spettacolo molto popolare che presenta storie elementari e talvolta triviali in spazi di fortuna adattati alla meglio.
Oltre che alla loro economicità, la diffusione dei cinema, che è un fenomeno per lo più urbano, è riconducibile alla vivacità culturale, economica e sociale di città come Torino in quegli anni. Meta di un notevole flusso migratorio che accrescerà la sua popolazione di circa un quarto in dieci anni portandola a oltre 400.000 persone nel 1911, Torino è una città nella quale tutto sembra esprimere modernità: dalla Mole Antonelliana, che da qualche anno è il suo simbolo e che è uno degli edifici più alti del mondo, fino alle industrie di cui è considerata la “capitale” italiana (auto, moda, cinema).
Una città dunque affascinante soprattutto per i giovani che, grazie all’abbassamento della mortalità infantile e all’immigrazione che va ad ingrossare le borgate di periferia, a Torino sono molti. Questi ragazzi e queste ragazze in larga parte lavorano in grandi fabbriche che favoriscono l’incontro in un ambito separato dalla famiglia e offrono salari relativamente elevati e, grazie alle rivendicazioni soprattutto delle donne, orari di lavoro che dal 1906 sono passati da 12 a 10 ore al giorno.
Dunque, qualche soldo e tempo libero da spendere in locali di intrattenimento come cinema e birrerie, che aprono numerosi in questo periodo e che si differenziano da quelli tradizionali e intergenerazionali come i circoli familiari, garantendo così, anche nel tempo dello svago, una certa separatezza dagli adulti.
Va considerato però che il cinema contribuisce al mutamento degli atteggiamenti giovanili non tanto quale luogo di incontro – esso è anzi adeguato anche ai solitari – ma in quanto media, cioè mezzo di trasmissione di modelli di comportamento.
Così come la letteratura popolare, da cui gli sceneggiatori del tempo attingono a piene mani, il cinema, con la potenza dell’immagine in movimento, presenta storie in quel momento trasgressive, come amori non platonici e giovani che sfidano l’autorità degli adulti e le convenzioni sociali. E come la letteratura popolare, il cinema diventa uno strumento per imparare a essere persone «al passo con i tempi» (e semmai con il luogo nel quale un neoimmigrato si ritrova a vivere) e a dare un’immagine di sé più spendibile nelle relazioni interpersonali e in particolare, almeno per i giovani, in quelle col sesso opposto.
Per comprendere come il cinema agisca in questo senso va tenuto conto che gli anni precedenti la Prima guerra mondiale vedono per le ragazze un notevole avanzamento nella sfera pubblica della consapevolezza di sé e della propria soggettività, soprattutto in città come Torino dove fra l’altro, nel 1911, un comitato locale di suffragette organizza il primo congresso italiano per il diritto di voto alle donne.
Così, in molte delle storie e dei personaggi che il cinema propone, le ragazze trovano conferma della loro aspirazione all’affermazione di sé, che si manifesta nell’autonomia delle scelte ma anche in forme esteriori come la cura del proprio corpo. Dall’altro lato i ragazzi possono trovare nei divi – virili ma capaci di gentilezza, sensibilità ed eleganza – un modello di uomo più accettabile dalle loro coetanee rispetto al maschio che, per dirla con un articolo di una rivista cinematografica intitolato L’arte del porgere, è aggressivo e «fa lo spavaldo per non parere d’esser minchione».
Conferma della capacità suggestiva del cinema, in particolare sui giovani, è il dibattito che infuria in questi anni tra suoi detrattori e suoi difensori. Tra i primi i cattolici e i socialisti, che lo ritengono luogo di «malsane suggestioni» e «torbide tentazioni»; tra i secondi, alcuni industriali che intuiscono che il cinema, come dirà un produttore americano, è un eccellente “commesso viaggiatore” di merci e di idee.
Tra questi c’è Giovanni Agnelli, che investirà in una casa cinematografica con sede in via Balangero a Lucento fino a dopo la fine della Prima guerra mondiale, quando il cinema italiano sarà schiacciato dalla capacità innovativa degli americani e dalla involuzione culturale e politica del nostro paese.
Approfondimenti
Per l’ambito locale: G. Pernaci, V. Rodriquez, Via Balangero 336: uno stabilimento cinematografico nella Torino del cinema muto, in «Quaderni del CDS», 2/2003, pp. 3-76.
Per una visione di ampio respiro sotto l’aspetto geografico, culturale e sociale della storia del cinema: N. Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Il Castoro, Milano, 2001.
Autore dell’articolo Valter Rodriquez