«… ma se ne stettero davanti alle macchine senza lavorare»: la riduzione dell’orario di lavoro a inizio Novecento

Le lotte per ridurre l’orario di lavoro a Torino derivano da un mix fra nuove opportunità offerte dalla città e aspettative dei giovani immigrati dalle campagne.

Operaia delle Officine Savigliano di Torino al lavoro durante la Prima guerra mondiale, particolare, 1915-1916 (fonte: Archivio di Stato di Torino, ASNOS, Fondo fotografico, 358)

Nel 1906 al cotonificio Mazzonis di Borgata Ceronda, detto “la Bianchina”, si sciopera. Si tratta di una delle tante agitazioni che riguardano tutta Torino e che porteranno alla riduzione dell’orario di lavoro dalle 12 ore quotidiane per sei giorni la settimana alle 10 ore, a parità di salario.
Il tema della riduzione dell’orario è presente in città dagli anni Ottanta del secolo precedente, ma solo nel periodo giolittiano acquisisce una tale rilevanza da coinvolgere una quota significativa delle manodopera operaia e da approdare, nel 1919, all’ottenimento per legge delle 8 ore giornaliere. Un secolo fa, quindi, nell’arco di una quindicina di anni – e con una guerra in mezzo – si passa da 72 a 60 e infine a 48 ore di lavoro a settimana.
Su questo obiettivo in realtà il movimento operaio è tutt’altro che monolitico: i maschi adulti tendenzialmente ritengono che si debba richiedere migliori condizioni lavorative e di salario, non di lavorare meno; sono le donne e i giovani che aspirano alla riduzione dell’orario e che, con i loro scioperi spontanei e di massa, consegnano un’inedita centralità al tema, come emerge proprio dalle vicende della Mazzonis (Tempo libero e spazio pubblico).
La riduzione di orario corrisponde certamente alla necessità di diminuire la fatica del lavoro in fabbrica, che grava in particolare sulle spalle delle donne che si devono tradizionalmente occupare delle incombenze casalinghe e della cura dei bambini, dei vecchi e dei malati. Ma se provassimo a prendere in considerazione anche il tempo libero, quello dove ci si diverte e dove si “consuma”, e le aspettative che i giovani hanno della loro vita futura? In altre parole: si chiede di lavorare meno per fare cosa?

Nella Torino industriale proliferano le opportunità di svago e di consumo del tempo libero. Un esempio è la faraonica birreria Kursal costruita dall’imprenditore Durio in Strada del Fortino nei primi del ‘900 (fonte: Archivio Storico della Città di Torino, NAF. La foto è pubblicata su www.censimento.fotografia.italia.it e rilasciata in modalità CC BY-SA)

Per andare al cinema, per esempio. La loro diffusione a inizio secolo in tutte le borgate periferiche cittadine testimonia del successo riscosso fra i giovani, che lì vanno per incontrarsi con i propri coetanei e per vedere pellicole dove si veicolano modelli di relazione fra ragazzi e ragazze più paritari («Spavaldo per non parere d’esser minchione»), distanti da una più rigida distinzione di generi e ruoli ancora tipica della prima generazione di famiglie operaie torinesi. Va costruendosi, insomma, un nuovo modo di vivere i rapporti di coppia, non solo al cinema ma anche negli altri luoghi d’incontro giovanili, come le sale da ballo e le birrerie. È attraverso il consumo, dunque, che si allargano quelle occasioni di socializzazione dove dare corpo a un modo diverso di vivere le relazioni, e in particolare immaginare quelle famigliari più libere.
È questo il contesto urbano su cui si affacciano i giovani immigrati che arrivano a Torino dalle campagne, dalle colline e dalle valli piemontesi. Per loro venire in città a lavorare nell’industria è un momento di grande emancipazione dalle proprie famiglie, molte delle quali, in special modo quelle mezzadrili, sono ancora delle “aziende” dove il capofamiglia conserva un assoluto potere decisionale nei confronti degli altri componenti. Ragazzi e ragazze che arrivano in città da soli, liberi dalla famiglia di origine e ancora senza una famiglia propria, con la voglia di lasciarsi alle spalle la passata esperienza contadina e affascinati dalle molteplici occasioni che offre la città di conoscere e confrontarsi con i propri coetanei.
Il flusso continuo di immigrati che si riversano a Torino è fondamentale per dare vita alle rivendicazioni sulla riduzione dell’orario di lavoro. Gli arrivi non sono casuali, ma si appoggiano su relazioni di parentela o di comunità di origine, così che il nuovo arrivato possa avere gli strumenti e le conoscenze per far fronte alle necessità più impellenti, come una casa dove vivere o un posto di lavoro. Queste relazioni sono durature, continuano anche dopo la prima sistemazione, e contribuiscono in tal modo a creare un senso di riconoscimento collettivo senza il quale è difficile immaginare gli scioperi spontanei e di massa di cui si è accennato all’inizio.

La richiesta di riduzione dell’orario di lavoro è un fenomeno non solo italiano ma internazionale. In tutti i Paesi industrializzati, con modalità e tempi diversi, gli operai manifestano per ottenere le 8 ore di lavoro. Tra gli slogan più comuni vi era quello che rivendicava la suddivisione della giornata in tre momenti: 8 ore di lavoro, 8 ore di tempo libero e 8 ore di riposo. Questa immagine ritrare una manifestazione del 1912 di operai danesi scesi in piazza con stendardi che riportano questo slogan. (fonte: Public domain, via Wikimedia Commons)

I neoimmigrati portano con sé anche un altro tipo di know-how, quello delle lotte del bracciantato agricolo. Una lotta storicamente fondata sulla riduzione dei ritmi di lavoro: lavorare più lentamente permetteva a un tempo di diminuire la fatica e di dover assumere altra manodopera, abbassando i livelli locali di disoccupazione.
Ma con il periodo giolittiano emerge anche in campagna una nuova strategia. Proprio nel 1906, la data da cui siamo partiti, le mondine del vercellese ottengono non le 10 ma le 8 ore lavorative. Siamo certamente davanti a un tipo particolare di bracciantato agricolo, composto in prevalenza da giovani donne, tuttavia la vicenda può suggerire che la questione del tempo libero non sia solo e tanto una questione geografico-economica (città industrializzata vs campagna agricola), quanto piuttosto un dato culturale e generazionale più diffuso.

Approfondimenti
Sulle lotte per la riduzione dell’orario di lavoro a Torino e nel vercellese, si rimanda ad A. Agosti, G. M. Bravo (a cura di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. II: L’età giolittiana, la guerra e il dopoguerra, De Donato, Bari 1979.
Sulla condizione sociale di giovani e donne a inizio Novecento, con particolare attenzione all’area dell’attuale Circoscrizione 5, si veda Addio giovinezza! Gli effetti della Prima guerra mondiale sulla condizione dei giovani e delle donne nella periferia torinese, a cura del Centro di documentazione storica della Circoscrizione 5, Biblioteca nazionale universitaria di Torino, Torino 2016
La citazione del titolo è presa dal carteggio Seminatti-Mazzonis, per cui si rinvia a M. Meotto, Gli scioperi del 1904-1907 allo stabilimento Bianchina. Chiavi di lettura e prospettive di ricerca emerse nell’epistolario Mazzonis-Seminatti, in «Quaderni del CDS», 11/2007, pp. 101-143, lettera numero B1

In Italia nel 1919 il disegno di legge sulle 8 ore di lavoro è approvato dal Consiglio superiore del Lavoro. Il relatore è Filippo Turati. Per un approfondimento sul tema si riporta qui sotto il testo a stampa.


Autori dell’articolo Alberto Levi e Giorgio Sacchi

Potrebbero interessarti anche...