Tempo libero e spazio pubblico: l’ostinata ricerca di autonomia delle giovani operaie torinesi a inizio Novecento
Attraverso gli scioperi del periodo giolittiano, le giovani operaie tentano di affermare una nuova moralità nella comunità in cui vivono, cercando di ridefinire i rapporti tra generi e generazioni.
Lo spazio pubblico è sempre una costruzione sociale: questo ci insegnano gli antropologi. Percorrere le strade con una processione, sfilare tra le vie di un quartiere per una manifestazione, assembrarsi per cantare durante la festa patronale sono tutte azioni dotate di un valore connotativo che va oltre l’atto in sé per i soggetti che le compiono. Per questo lo spazio pubblico di una comunità diventa spesso il teatro di relazioni ritualizzate – in modo consapevole o inconsapevole – per mezzo delle quali si scrivono o si riscrivono i paradigmi identitari su cui si regge la comunità stessa. La storia delle lotte operaie a inizio Novecento nelle borgate di barriera della periferia Nord-Ovest di Torino può aiutarci a comprendere fenomeni simili.
Assistiamo qui all’emergere di una nuova soggettività – quella operaia femminile – in grado di imporsi all’attenzione delle comunità di appartenenza con una declinazione ben precisa: la forma esplicita del conflitto. Nel primo decennio del Novecento, in particolare nell’area compresa tra Borgata Ceronda e San Donato, dove è forte la presenza di stabilimenti del settore tessile, hanno luogo decine e decine di scioperi che si trasformano, quasi puntualmente, in rappresentazioni del conflitto sulla scena pubblica: picchetti, cortei, assembramenti sotto casa di chi pratica il crumiraggio. Le protagoniste di questa riscrittura dell’uso degli spazi pubblici sono donne, sono operaie e sono giovani: è l’appartenenza a queste tre condizioni che ci spiega che è in corso il tentativo di affermare una nuova moralità. Questa – andando ben oltre l’ambito puramente lavorativo – mira a ridefinire i rapporti tra i generi e tra le generazioni.
La maggior parte delle agitazioni nel settore tessile presenta marcati tratti di spontaneismo e, non di rado, dalle pratiche messe in atto emerge una spiccata insofferenza verso le forme organizzate del movimento operaio, in cui, oltre al dominio della componente maschile, non mancano afflati paternalistici. Un paio di scorci in questo processo possono aiutare a comprendere le trasformazioni in corso.
Dicembre 1904, cotonificio Mazzonis, stabilimento detto “la Bianchina”: scoppia uno sciopero spontaneo. Circa 700 operaie – filatrici e tessitrici – restano fuori dai cancelli. È una questione di classe, ma è anche una questione di genere: le lavoratrici protestano per le multe dovute al mancato rispetto degli standard e dei ritmi nella produzione a cottimo, ma sono anche esasperate dai rapporti promiscui e dalle molestie subite sul luogo di lavoro da parte dalle maestranze maschili. Da quando, circa trent’anni prima, le donne sono tornate alle occupazioni salariate nella manifattura, questa è ormai la terza generazione di ragazze che attraversa il contesto della fabbrica: essere donne ed essere operaie non è più una novità. Di conseguenza anche i rapporti sociali e i modelli famigliari più diffusi nella comunità si sono modificati mano a mano che la condizione operaia femminile ha aumentato il suo peso numerico. Si sta imponendo un modello “intimo” di famiglia: negli aggregati domestici, grazie alle conquiste salariali e alla progressiva riduzione dell’orario di lavoro, i due coniugi sviluppano un’inedita forma di condivisione del tempo non lavorativo e un maggiore riconoscimento reciproco della parità di condizione. È questa mentalità che va diffondendosi a rendere inaccettabili vessazioni e prepotenze maschili sul lavoro che vanno denunciate e stigmatizzate sulla scena pubblica.
Ottobre 1907, al cotonificio Mazzonis si sciopera di nuovo. Era successo anche l’anno prima, come in tutta Torino, per ottenere le 10 ore lavorative. Questa volta però si sciopera per solidarietà: per otto giorni le filatrici incrociano le braccia in appoggio a una compagna licenziata con l’accusa di aver aggredito una collega. Se si leggono le carte, si scopre che l’aggredita aveva rifiutato di partecipare a una precedente agitazione. Una crumira, insomma. Solo un forte senso di appartenenza alla medesima condizione – quella di donne e di giovani – permette di comprendere il dispiegarsi di una dinamica simile, quella in cui centinaia di donne rischiano il posto di lavoro solo per ribadire un semplice ma basilare principio morale: le crumire non le vogliamo.
L’agitazione ha così poco della tradizionale contrapposizione per ragioni salariali o di organizzazione della produzione che anche la Camera del Lavoro, dopo un primo appoggio, toglie il sostegno alle scioperanti. Le filatrici si trovano così a condurre la propria battaglia potendo contare solo sulla solidarietà trasversale delle operaie di altri stabilimenti e dei giovani del quartiere che spesso compaiono al loro fianco quando intervengono i tutori dell’ordine. Nello spazio pubblico giovani donne e giovani uomini rivendicano così quell’autonomia che già sta frantumando le gerarchie tradizionali e i rapporti tra le generazioni nello spazio privato della famiglia. È come se dicessero che non vogliono più stare in casa e sottostare alle regole della casa.
Che si ritrovino davanti ai cancelli delle fabbriche, nelle sale da ballo o nei cinematografi che – anche nei quartieri periferici di Torino – stanno aprendo numerosi («Spavaldo per non parere d’esser minchione»), le giovani operaie e i giovani operai dell’età giolittiana pretendono il tempo libero, pretendono un tempo proprio. Rivendicano lo spazio pubblico e la propria autonomia.
Approfondimenti
Sugli scioperi delle operaie della Mazzonis: M. Meotto, Tra violenza e devianza. Ipotesi su forme di controllo comunitario e produzione di identità, in «Quaderni del CDS», 14-15/2009, pp. 151-203.
Sulle mobilitazioni operaie a livello cittadino: P. Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Einaudi, Torino 1972.
Autore dell’articolo Marco Meotto